Patria (Fernando Aramburu)

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Come ci si può sentire se il proprio marito viene assassinato da un gruppo terroristico e il figlio dei tuoi amici, quella famiglia con cui hai condiviso tanti bei momenti, fa parte proprio di quel gruppo di terroristi?

Tanto per cominciare non ci si rivolge più la parola. Ma i rapporti si erano già raffreddati prima che il Txato venisse ucciso. Lui e il suo amico Joxian, per esempio, non andavano più in bici insieme, la domenica, da quando in paese erano comparse scritte minacciose contro il Txato. Joxian aveva tentato di avvicinarlo, di dirgli che non poteva fare altrimenti, che doveva cautelarsi, ma il Txato non era stato neanche a sentirlo, deluso dalla codardia del suo vecchio amico.

Joxian è un uomo mite. È convinto che suo figlio Joxe Mari sia stato molto stupido a entrare nell’ETA , forse sarebbero serviti due schiaffoni in più, chissà. E poi da quando lo hanno arrestato sua moglie Miren è diventata insopportabile, più militante e intollerante del figlio.

Bittori, la vedova del Txato, è il personaggio migliore, a mio avviso. Ogni giorno si reca alla tomba del marito per raccontargli le ultime novità. Come ad esempio la sua decisione di tornare a vivere in paese: tutti ritengono che non sia opportuno, che il suo gesto possa sembrare una provocazione, ma quella è casa sua e lei impone, silenziosamente, la sua presenza. E sempre a toni bassi e con grande gentilezza cerca la verità e un riavvicinamento con i vecchi amici.

Ma il libro non parla solo di questo. La sua forza sta proprio nel mostrare come nella vita della famiglia del terrorista così come in quella della vittima ci sia molto di più. I ragazzi crescono, si innamorano, trovano la loro strada. I rapporti di coppia hanno i loro alti e bassi. Un figlio decide di lasciare la famiglia per andare a vivere con un uomo. Una figlia ha un ictus e rimane invalida su una carrozzina. Ci sono giornate caldissima e giorni di pioggia torrenziale. C’è il desiderio di proteggere un genitore anziano e quello di proteggere figli ormai adulti. E poi, naturalmente, ci sono il terrorismo, l’addestramento, la vita in carcere, le torture.

Il romanzo è a più voci. Ogni capitoletto è raccontato da una voce narrante diversa. Spesso lo stesso episodio è raccontato più volte, ciascuna da un protagonista diverso.
Il racconto non segue quindi una linea cronologica, è tutto un andare avanti e indietro che non confonde, anzi, rende la vicenda sempre più chiara nella sua complessità perché ogni volta si aggiunge un particolare.

Ci sono due elementi che non ho capito.
Uno è il finale, ma questa è una costante, come al solito cercherò di farlo leggere alla mia amica Angela che ha ufficialmente il ruolo di spiegarmi i finali dei libri.

L’altro aspetto che mi ha confusa è il fatto che, dal momento dell’omicidio, è la famiglia della vittima a provare vergogna, a volersi allontanare dal paese, a nascondersi. Mentre quella del terrorista continua tranquillamente ad abitare in paese, senza alcun imbarazzo, anzi, si sente quasi offesa quando Bittori torna a vivere lì. Dev’essere una dinamica comune perché è evidente lungo tutto il libro, viene data per ovvia, come conseguenza naturale.

Infine un appunto all’edizione digitale. Nel testo sono presenti numerose parole in lingua basca. In fondo al libro c’è un glossario con tutte le traduzioni.
Comodissimo nella versione cartacea.
Praticamente inutile nell’edizione elettronica, se non si linkano le parole nel testo 😡

640 pagine.

Indice di regalabilità: 4/5 (sarà apprezzato soprattutto da chi legge molto, da chi sa apprezzare i diversi punti di vista di una stessa situazione, da chi prova a mettersi nei panni degli altri, da chi non ha certezze.

(Di seguito alcune parti che ho sottolineato: a me servono per ricordare alcuni passaggi ma possono anche dare un’idea del tipo di storia e di scrittura a chi si sta lasciando incuriosire. Come sempre, le frasi prese fuori dal loro contesto possono avere un significato limitato o fuorviante. )


Il suo desiderio più grande, essere finalmente da sola, fuori dal campo visivo di consiglieri, di spingitori di sedia, di alimentatori, protettori e persone in linea generale servizievoli che sfoggiavano di continuo con lei le loro prodigiose (muoio dal ridere) doti di pazienza nelle sue diverse sfumature: la pazienza-affetto, la pazienza-compassione, la pazienza-fastidio mal dissimulato, la pazienza-rancore per non aver fatto loro il piacere di morire. Andassero affanculo. Dal pomeriggio della disgrazia non è più padrona della sua vita. E lei voleva stare da sola, cazzo, da sola. Per guardarsi allo specchio? Già, e se pure fosse stato così?

Però un uomo può essere una nave. Un uomo può essere una nave con lo scafo d’acciaio. Poi passano gli anni e
si formano delle incrinature. Di lì passa l’acqua della nostalgia, contaminata di solitudine, e l’acqua della consapevolezza di essersi sbagliato e di non poter rimediare all’errore, e quell’acqua che corrode tanto, quella
del pentimento che si sente e non si dice per paura, per vergogna, per non fare brutta figura con i compagni. E
così l’uomo, ormai nave incrinata, andrà a picco da un momento all’altro.

Questo qui o benedice o tace.

Aveva avuto un pensiero che poi le è tornato molte volte: forse sarebbe stato preferibile morire. Almeno i defunti non costano, non costiamo, fatica.

Uno sbaglio della natura. Perché così come abbiamo le palpebre per smettere di vedere quando non ne abbiamo
voglia, dovremmo poter disporre di due saracinesche nel canale auditivo. Le chiudiamo e non dovremmo più
sentire quello che non vogliamo sentire.

Eat & Run (Scott Jurek)

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Scott Jurek è uno dei più forti ultramaratoneti del mondo.
Un ultramaratoneta è chi riesce a correre per una distanza superiore ai 42 chilometri e rotti della maratona.
Jurek non si allaccia neanche le scarpe se non sono almeno 100 chilometri, possibilmente con dislivelli importanti e in condizioni climatiche estreme.
Giusto per inquadrare il personaggio.

Jurek cresce in mezzo ai boschi, con una madre malata e un padre burbero. Inizia a correre come allenamento per lo sci di fondo. I suoi tempi sulla maratona sono piuttosto anonimi.
Ad un certo punto si accorge che più il percorso si allunga più lui si sente forte. Che ha la capacità di resistere quando tutti gli altri si arrendono. E che la sua forza dipende strettamente da quello che mangia.

Jurek diventa vegano.

Ho finito di leggere questo libro addentando una delle polpette speciali preparate da mia suocera: quindi no, sul veganesimo non mi ha convinta. Per chi ha vedute un po’ più larghe delle mie il libro contiene anche alcune sue ricette. Anticipo che gli ingredienti non sono di facilissima reperibilità, le dosi sono in tazze (che nervi…) e sembra che per qualsiasi cosa serva un frullatore potente.

Mi ha invece conquistata su tutto il resto: c’è il racconto della sua vita, il rapporto con i genitori, lo sport, gli amici. E ci sono le sue riflessioni sulla corsa, su quello che ti dà e su quello che si prende, sul perché uno decide di affrontare una gara in mezzo alla Valle della Morte, o sulle vette di una montagna ricoperta di neve, su come si fa ad affrontare il dolore, su cosa conti davvero (piccolo spoiler per Diego: no, non è vincere).

Sono riflessioni in cui chi pratica un qualsiasi sport di resistenza si riconoscerà, ognuno nel suo piccolo. Il linguaggio è semplice: sembra di essere seduti con lui al traguardo di una gara, mentre aspetta per salutare tutti quelli che arriveranno dopo di lui. Mangia qualcosa che si è preparato da solo con tofu e quinoa e nel frattempo ti racconta di quella volta che ha corso con una distorsione alla caviglia, della prima volta che ha battuto il suo amico Dusty, di quando ha gareggiato con i Tarahumara. Ma anche di quando doveva cucinare per la famiglia perché la madre era troppo malata per farlo.

In appendice c’è un elenco di riferimenti bibliografici per chi volesse approfondire il tema delle ultramaratone e dell’alimentazione negli sport di resistenza.

Indice di regalabilità: 4/5 (sarà apprezzato, naturalmente, se la persona a cui lo regalate ama correre. Meglio se predilige la corsa libera nella natura a quella con cronometro e in pista)

(Di seguito alcune parti che ho sottolineato: a me servono per ricordare alcuni passaggi ma possono anche dare un’idea del tipo di storia e di scrittura a chi si sta lasciando incuriosire. Come sempre, le frasi prese fuori dal loro contesto possono avere un significato limitato o fuorviante. )


Quando sei un po’ più grande della sofferenza, del dolore e della tentazione di fermarti, ti dai l’opportunità di vedere oltre, di comprendere cose che la sicurezza dell’immobilità ti impediva di conoscere. Tutto passa, tutto è transitorio, e se ti dai tempo anche il dolore svanisce.

Tutte le volte che non avevo voglia di togliere sassi o impilare legna e mi lamentavo perché volevo solo andare a giocare, mio padre ringhiava: «Fallo e basta!». Dopo un po’ smisi di lamentarmi.

Ciò che chiamiamo esaurimento non è l’incapacità di continuare, ma più semplicemente il livello di affaticamento oltre il quale non siamo disposti ad andare.

Correvo perché superare le difficoltà di un’ultra mi ricordava che potevo superare le difficoltà della vita e che, in effetti, superare le avversità è la vita.

Ma il meraviglioso paradosso della corsa è che per iniziare non c’è bisogno di alcuna tecnica. Proprio nessuna. Se vuoi essere un corridore, vai su un sentiero, in un bosco, su una strada o su un marciapiede, e corri. Cammina per cinquanta metri se è tutto quello che riesci a fare, domani andrai più lontano.

«Non sai quanto sei forte finché esser forte è la tua sola alternativa.»

La terra non mi metteva alla prova. C’era solo il sospiro del vento, e il silenzio, e io. Nella foresta ero solo con le mie domande e con l’assoluta assenza di risposte – ma lì quella mancanza non mi faceva paura. Quando corri tutto quello che hai intorno non si aspetta niente da te. Non gli importa quanto vai forte o veloce. Se sei grassa o magra, giovane o vecchio. Ti accoglie e basta.

Ciò che mangiamo è una questione di vita e di morte. Noi siamo ciò che mangiamo.

Al suo armadietto aveva attaccato una citazione: «Quando corri sulla terra e corri con la terra, puoi correre per sempre».

Molti degli obiettivi di un allenamento strutturato, dunque, sono compensatori. Non è tanto il dover imparare a correre di per sé, quanto il dover annullare le piccole cattive abitudini e correggere gli squilibri tipici che il moderno stile di vita porta con sé.

Quello che ti definisce non è se riesci a ottenere o meno ciò che desideri, è come lavori per ottenerlo.

Non importa quello che fai o come lo fai, ci sarà sempre qualcuno pronto a odiarti.

Mi disse che tutti abbiamo i nostri momenti bui, e che è durante quei momenti che impariamo di più, che sono queste lezioni a renderci più forti. Gli risposi che sarei stato bene. Dave era sempre stato tra i top runner, ma mai il migliore. Forse quello spiegava la sua gentilezza.

Non è ciò che perdiamo che ci definisce, ma come lo perdiamo. È quello che facciamo dopo.

(Sulla madre) Quando arrivava il momento di lasciarla mi salutava con un «addio» e un «ti amo». Ma le sue ultime parole erano sempre le stesse. «Sono una dura» diceva, «non preoccuparti per me».

I saggi maestri buddisti consigliano ai pellegrini di tagliare legna e portare acqua finché non incontrano l’epifania accecante e trasformante. Dopo quel momento di beatitudine elettrica, dice il maestro, porta più acqua  e taglia più legna. La corsa mi aveva portato pace e chiarezza, e io continuavo a correre. Poi la serenità se ne andò, e rimase solo il vento triste e sussurrante. Io continuavo a correre.

Sono attività semplici, comuni come l’erba. E sono sacre. I monaci che cercano la beatitudine portano l’acqua e tagliano la legna, e anche queste sono cose semplici, ma se sono approcciate con consapevolezza e concentrazione, con attenzione al presente e umiltà, possono dare accesso alla trascendenza. Possono illuminare la strada verso qualcosa che è più grande di noi stessi.

È facile restare coinvolti in scadenze e debiti, vittorie e sconfitte. Le persone che amiamo ci lasciano. La gente soffre. Una gara di 160 chilometri – o di 5000 metri o una corsa intorno all’isolato – non allevieranno il dolore di nessuno. Un piatto di guacamole e cavolo nero non libereranno nessuno dal dolore. Ma puoi esserne trasformato. Non in una notte, ma a lungo termine. La vita non è una gara, e non è nemmeno  un’ultramaratona, no davvero, anche se ci assomiglia. Non c’è una linea di arrivo. Noi tutti tendiamo verso un obiettivo, ed è importante se lo raggiungiamo o meno – ma non è la cosa più importante. Quel che conta è come ci muoviamo verso quell’obiettivo. Ciò che è fondamentale è il passo che stiamo facendo proprio ora, il passo che tu stai facendo in questo preciso momento.

Ognuno segue un sentiero diverso. Mangiare bene e correre libero mi ha aiutato a trovare il mio, e potrebbe aiutarti a trovare il tuo. Non puoi mai sapere dove ti porterà il tuo sentiero.

Ricordi in un panino.

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Ho pensato a mio padre, oggi.

L’ho fatto in un bar, seduta davanti al panino che mi avevano appena portato.

Ho pensato a mio padre che, al bar o al ristorante, non ha mai servito nulla che non avesse prima assaggiato.

Ricordo due preparazioni su cui si era particolarmente incaponito.

Una era la cioccolata con panna. Il problema della qualità e della densità della cioccolata lo risolse abbastanza in fretta. La panna gli diede invece del filo da torcere. Lui la odiava, la panna. Eppure deve averne assaggiata a chili per trovare la giusta quantità di zucchero, per impostare la macchina per una densità che fosse piacevole ma anche resistere dignitosamente al calore della cioccolata e per assicurarsi che non avesse nemmeno una punta di acido. La panna è bastarda, sembra perfetta, ti giri e diventa acida.

L’altra erano le focacce. La ricetta base della focaccia venne perfetta al primo colpo a quello chef a sua insaputa che è mia madre. Ma bisognava capire come conservarle al meglio per averle sempre disponibili. E, soprattutto, come riscaldarle. Non è un problema banale: il formaggio, per sciogliersi, ha bisogno di una quantità di calore che brucerebbe qualsiasi pane. Mio padre non voleva rassegnarsi a scegliere tra il pane tostato al punto giusto con formaggio duro e freddo o il formaggio sciolto con pane abbrustolito. Una quantità di prove infinite, modificando l’ordine dei fattori, cambiandoli uno ad uno e alla fine aveva trovato il trucco.

Nel bar in cui mi trovo adesso secondo me non c’è nessuno che abbia provato a cambiare lo spessore del formaggio pensando che il segreto sia lì (non è lì). O che abbia studiato la variazione della morbidezza del pane in rapporto all’esposizione al calore.

Sono cresciuta nel baretto di montagna di mio padre, conosciuto nei dintorni per le strepitose focacce imbottite. All’epoca mi sembrava assurdo che nessuno provasse a imitarle.

In un bar del centro di Milano, davanti a un panino terribile, oggi ho capito perché.

 

 

 

Furore (John Steinbeck)

Furore

Non so come parlare di questo libro.

Immagino la mia faccia mentre lo ripercorro nella mente, mentre rivedo Al al volante del camion, Casey che ne dice una delle sue, Rose of Sharon che si lamenta in continuazione, Ruthie e Winfield che corrono qua e là, Tom che è stato in carcere e non può farsi scoprire, zio John con quel peso sempre sull’anima. La mia è una faccia seria, mentre penso a questa storia, la faccia di una che scopre quanta fatica si può sopportare con dignità. E’ una faccia che dimostra rispetto per tutti quei personaggi, dentro una storia più grande di loro, con Ma’ al timone.
Che donna Ma’! Non si sa nemmeno come si chiami, è semplicemente Ma’, l
a chiamano tutti così. E’ una donna forte che dà una direzione ad ogni personaggio del libro, conosce i punti deboli di ciascuno e a ciascuno fa trovare la propria forza. Mi resterà dentro, Ma’, sarà lì a farmi vergognare ogni volta che mi verrà da lamentarmi per un po’ di stanchezza, ogni volta che mi verrà da pensare che non ce la faccio più.

I Joad sono una famiglia costretta, insieme a tantissime altre, a lasciare la propria terra nell’Oklahoma a causa della siccità e della meccanizzazione. Comprano un catorcio di camion, caricano tutto quello che hanno, compresi una nonna anziana e un nonno riluttante, e partono verso l’Ovest: dicono che la California sia meravigliosa, che la frutta cresca abbondante e che ci sia bisogno di tanta manodopera. Il viaggio è lungo e faticoso. La destinazione avrà sì una terra florida ma persone più aride della terra che si sono lasciati alle spalle.

Cosa succede nella testa e nel cuore di una persona quando è stanca, quando è umiliata, quando ha fame? In certe condizioni cosa significa essere giusti?

Immagino la mia faccia mentre ci penso e quello che ci vedo passare sopra sono onde di concentrazione mista a tristezza, sono domande a cui è troppo difficile rispondere. E vorrei solo che Al mi spiegasse come si aggiusta una cinghia e che Tom mi insegnasse a difendermi. Vorrei tenere la mano di Rose of Sharon mentre partorisce, io che mi impressiono con niente, e vorrei giocare con Ruthie e Winfield, io che odio giocare. Posso aiutare Pa’ a scaricare  il camion. E voglio dare una mano a Ma’ ad impastare le focacce e a preparare il caffè. Lasciatemi qui, non voglio parlare, voglio fare qualcosa che mi sporchi le mani e i vestiti. Che di parole, per questa storia, non ce ne sono.

Le ha usate tutte Steinbeck.

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Indice di regalabilità: 4/5 (accertatevi solo che che il destinatario non l’abbia già letto, è praticamente un classico, e che sia in grado di affrontare temi di un certo spessore)

Qui c’è Baricco che racconta la storia e ne legge dei brani: è stato lui, con questo spettacolo, a convincermi a leggerlo. Gliene sono grata.

(Di seguito alcune parti che ho sottolineato: a me servono per ricordare alcuni passaggi ma possono anche dare un’idea del tipo di storia e di scrittura a chi si sta lasciando incuriosire. Questa volta sono molte ma non riuscivo proprio a scegliere. Come sempre, le frasi prese fuori dal loro contesto possono avere un significato limitato o fuorviante. )

Poi dalle case uscirono le donne e si misero accanto ai loro uomini – per capire se stavolta gli uomini sarebbero crollati. Le donne studiavano di nascosto la faccia degli uomini, perché il mais si poteva anche perdere, purché si salvasse qualcos’altro. I bambini indugiavano lì accanto, disegnando nella polvere con le dita dei piedi scalzi, e i bambini sondavano in silenzio gli uomini e le donne per capire se sarebbero crollati.

Dopo un po’, le facce attente degli uomini persero la loro stupefatta perplessità e si fecero dure e rabbiose e ostinate. Allora le donne capirono che erano saldi e che non sarebbero crollati. Allora chiesero: Che facciamo? E gli uomini risposero: Non lo so. Le donne capirono che andava tutto bene, e i bambini capirono che andava tutto bene. Le donne e i bambini sapevano dentro di sé che non esistevano disgrazie insormontabili se i loro uomini restavano saldi.

“Mi vengono un sacco d’idee da peccatore… ma mi sa che non sono sbagliate.”

La banca è qualcosa di diverso dagli uomini. Tant’è vero che ogni uomo che lavora per una banca odia profondamente quello che la banca fa, e tuttavia la banca lo fa ugualmente. Credetemi, la banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma non possono controllarla.

“Ma dove finisce questa catena? A chi possiamo sparare? Non mi va di morire di fame senza ammazzare l’uomo che mi fa morire di fame.”

“Tutti quanti ci dobbiamo pensare. C’è per forza un modo per fermare questa cosa. Non è come i fulmini o i terremoti. Questa è una cattiveria fatta dagli uomini, e le cattiverie fatte dagli uomini si possono cambiare, perdio!”

“Non gli piacciono queste cose da ricchi. Non gli piace manco scrivere le parole. Gli mette paura, mi sa. Ogni volta che Pa’ ha visto roba scritta era qualcuno che gli portava via qualcosa.”

“Quello che mi seccava di più è che non serviva a niente. Non è che stai lì a chiederti a  che serve quando un fulmine t’ammazza una vacca, o quando arriva l’inondazione. Sai che le cose vanno così. Ma se un gruppo di gente ti piglia e ti sbatte al fresco per quattro anni, deve servire a qualcosa. Uno a queste cose ci pensa. Dico, mi sbattono dentro, mi tengono lì e mi danno da mangiare per quattro anni. Dovrebbe servire a farmi cambiare, così non lo rifaccio più; o sennò dovrebbe servire a spaventarmi, così mi passa la voglia di rifarlo”. Tacque per qualche istante. “Ma se ora vedo uno come Herb che m’arriva addosso col coltello, io lo rifaccio.”

Era come se si vergognava, e allora s’imbestialiva.

L’importante è quello che uno riesce a raccontarsi.

I suoi occhi nocciola sembravano aver vissuto ogni tragedia possibile, salendo come gradini il dolore e la sofferenza fino a raggiungere una comprensione sovrumana e un sommo equilibrio.

Come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato? No. Tocca lasciarlo qui. Bruciarlo.

Ecco cos’è predicare. Fare del bene a uno ch’è conciato male e non può farti smettere con un pugno.

Quell’uomo che è più della sua struttura chimica, che cammina sulla terra, che fa deviare la punta dell’aratro per evitare una pietra, che preme sulle stegole per scavalcare un rialzo, che s’inginocchia tra i solchi per consumare il pasto; quell’uomo che è più dei suoi elementi, conosce la terra che è più della sua analisi. Ma l’uomomacchina, che guida un trattore morto sulla terra che non conosce né ama, capisce solo la chimica; e disprezza la
terra e insieme se stesso. Quando le porte di lamiera ondulata sono chiuse, lui va a casa, e la sua casa non è la terra.

“Non ci pensi a come sarà quand’arriviamo? Non ti spaventi che non sarà bello come ci credevamo?” “No,” disse bruscamente lei. “No, non ci penso. Non lo voglio fare. Non lo devo fare. È troppo… è come provare a vivere troppe vite.”

Lì ci saranno mille vite da vivere, ma alla fine la vita è una sola. Se mi metto a pensarle tutte, sono troppe per me. Tu ci puoi pensare perché sei giovane, ma… per me c’è solo la strada che passa qui sotto.

Oggi tutto si sposta. La gente si sposta. Sappiamo perché e sappiamo come. La gente si sposta perché lo deve fare. Ecco perché la gente si sposta. Si sposta perché vuole qualcosa di meglio. E quello è l’unico modo per trovarselo. Quando gli serve qualcosa, quando gli manca qualcosa, se lo vanno a pigliare. È a forza di sopportare che uno impara a ribellarsi.

Li conosco quelli come te. Tu non vuoi capire niente. Vuoi solo cantarti la ninnananna… ‘Dove andiamo a finire?’”

‘A scoraggiarsi sono bravi tutti, a tener duro solo gli uomini’.

L’ultima funzione chiara e distinta dell’uomo: muscoli smaniosi di lavorare, cervelli smaniosi di creare al di là del singolo bisogno – ecco cos’è l’uomo.

Terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché quest’unica qualità è fondamento dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo.

“Non serve fegato per fare qualcosa quando non puoi fare nient’altro.

Come fai a spaventare un uomo quando quella che lo tormenta non è fame nella sua pancia ma fame nella pancia dei suoi figli? Non puoi spaventarlo: conosce una paura peggiore di tutte le altre.

Quando le mani in cui si accumula la ricchezza sono troppo poche, finiscono per perderla. E la verità accessoria: quando una moltitudine di uomini ha fame e freddo, il necessario se lo prende con la forza. E la piccola ma sonora verità che echeggia lungo la Storia: la repressione serve solo a rinforzare e unire gli oppressi.

E si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro.

Il prodotto delle radici, delle vigne e degli alberi dev’essere distrutto per tenere alto il prezzo, e questa è la cosa più triste e amara di tutte.

Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.

E c’è un’altra cosa che sanno le donne. Me ne sono accorta. Per l’uomo la vita è fatta a salti: se nasce tuo figlio e muore tuo padre, per l’uomo è un salto; se ti compri la terra e ti perdi la terra, per l’uomo è un salto. Per la donna invece è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un mulinello, ogni tanto c’è una secca, ma l’acqua continua a scorrere, va sempre dritta per la sua strada. Per la donna è così ch’è fatta la vita. La gente non muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume: magari cambia un po’, ma non finisce mai.”

Le donne guardavano gli uomini, li guardavano per capire se stavolta sarebbero crollati. Le donne guardavano e non dicevano niente. E quando gli uomini erano in gruppo, la paura spariva dai loro volti e la rabbia prendeva il suo posto. E le donne sospiravano di sollievo, perché capivano che andava tutto bene: il crollo non c’era stato; e non ci sarebbe mai stato nessun crollo finché la paura fosse riuscita a trasformarsi in furore.

Questa è l’acqua (David Foster Wallace)

questa è l'acqua

David Foster Wallace è ritenuto da molti un genio della letteratura americana.

Non so cosa voglia dire, esattamente, ma quelle due parole, genio e letteratura, mi hanno messo in soggezione per un bel po’. Nel senso che compravo i suoi libri e poi li tenevo lì. Li guardavo da lontano. Soprattutto quel mastodonte di Infinite Jest, il suo romanzo più importante.

Credo di averli tutti. Ma questo è il primo che ho affrontato, scegliendolo un po’ a caso, un po’ perché da più parti mi era arrivato il consiglio alla cautela: inizia per gradi, mi dicevano, inizia dai racconti.

In questa raccolta sono contenuti cinque racconti e la trascrizione del discorso che l’autore ha tenuto in occasione del conferimento delle lauree al Kenyon College nel 2005.

I racconti sono diversissimi tra loro, nei temi, nei toni, nello stile e io non li ho capiti tutti. Se genio significa strano, un po’ complicato, con la tendenza a girare il tavolo da gioco ad ogni giro di pagina allora sì, sono d’accordo, Wallace è un genio.

Non ho capito per niente, ad esempio, il racconto dal titolo “Altra matematica”: sono quattro pagine in croce di soli dialoghi, senza termini difficili considerata anche la presenza di un bambino e la totale assenza della matematica del titolo, ma non ho capito niente lo stesso.

Ho afferrato solo qualcosa di “Crollo del ’69”. Bello lo spunto di sottolineare la straordinarietà di chi sbaglia sempre, che si tratti di indovinare l’esito di una gara di cavalli o l’andamento di un’azione in Borsa. Un tizio del genere può essere molto prezioso, a patto di saperlo interrogare.

“Ordine e fluttuazione a Northampton” è di una tenerezza infinita, con Barry Dingle alle prese con il suo amore per Myrnaloy Trask, un amore che ha le fattezze di un omuncolo che vive dentro il povero Barry, torturandolo dalle punte dei piedi, letteralmente, in su.

I racconti che ho preferito però sono “Solomon Silverfish” (pur non avendo compreso il finale) e “Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta”. Nel primo il concetto di “amore” si spoglia di ogni svolazzo etereo e diventa pietra solida, resistente a tutto, perché forse è solo quando ti ammali di un male che fa scempio del tuo corpo che capisci cosa ama esattamente di te chi dice di amarti da una vita. Nel secondo ho trovato la definizione più precisa e completa della depressione: non sono un’esperta in materia, ma Wallace sì visto che si è suicidato a 46 anni, e la sua descrizione della Cosa Brutta mi è sembrata molto efficace.

Il pezzo forte della raccolta, in ogni caso, quello che da solo vale il prezzo del libro, è la trascrizione del suo discorso ai laureandi del Kenyon College. Se non volete cimentarvi a leggere altro di quest’autore che in effetti non è facilissimo, fatevi il regalo di leggere almeno questo discorso. E’ lungo? Sì. E’ difficile? Un po’: se sei abituato a leggere solo testi della lunghezza di un tweet potresti incontrare qualche difficoltà ma la fatica verrà ripagata. Io vorrei provare a raccontarvelo qui, ma l’unico modo per parlare di quella roba lì è seduti su una panchina in un parco, o al tavolo di un ristorante, o su un comodo divano con in mano una tazza di tè (ok, va bene anche una birra). Si parla di senso della vita, di arroganza, della cultura che non serve a insegnarti a pensare ma ti dà la possibilità di scegliere a cosa pensare, del migliore augurio che si possa fare a dei laureandi che si affacciano alla vita di cui non sanno nulla, di come anche noi che non siamo più di primo pelo possiamo avere uno sguardo diverso su quello che ci succede intorno.  Ma non posso dirti di più, davvero, perché il suo modo di parlare di quei concetti è l’unico che, in questo momento, mi sembra possibile. Quindi ti propongo di leggerlo e poi di tornare qui a dirmi cosa ne pensi.

Magari riuscirai a spiegarmi anche il racconto che non ho capito.

Indice di regalabilità: 2/5 (libro un po’ ostico. Ma magari se lo regalate specificando che è soprattutto per il “Discorso” potreste avere qualche possibilità in più di trovare qualcuno che lo apprezza).

 

 

 

Tanto gentile e tanto onesta pare

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendo si laudare,
benignamente d’umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare. 

Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.

Compito: indica quale persona o cosa ti farebbe pensare quello che Dante pensa di Beatrice.

Svolgimento di Matteo, seconda media.

ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare

Una bella macchina.

e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare
Un orto, grandissimo, di terra buona e con tanta acqua per irrigarlo.

che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova;

Quando faccio qualcosa con le mie mani, impiegando tanto tempo e tanta fatica. Se uno non ci ha mai provato non lo può capire.

Per me va bene.

Runterapia

Stavo per andarmene, maledicendoti per non avermi aspettata la prima volta che arrivo con cinque minuti di anticipo invece dei soliti quindici. Stavo per andarmene, quando ho sentito la chiave girare nella serratura. Nel piccolo spiraglio che hai aperto ho intravisto capelli spettinati, un pigiama enorme e delle ciabatte rosa: “Scusa, non ti ho avvisata. Io oggi non esco a correre. Ciao.”

Tu che non esci a correre la domenica mattina e quelle ciabatte rosa sono qualcosa che non trovano posto nell’universo conosciuto.

Infilo la mia Saucony grigia tra la porta e lo stipite per impedirti di chiuderla, tu non insisti, mi volti le spalle e torni al tuo divano. Lo interpreto come un invito ad entrare.

Da quello che vedo in giro direi che no, non sei in gran forma. Non provo neanche a chiederti cos’hai: mi risponderesti “niente” o “non lo so”, lo chiami sempre così questo macigno che riempie tutta la stanza e che sapresti descrivere con la precisione di un geologo.

Accendo la radio e ti preparo una tazzona di Nescafé. La lascio sul tavolo a fianco del divano che nel frattempo ha assunto la forma della tua schiena. Ma so che non resisti al Nescafé.

Cerco di liberare una sedia da indumenti accatastati e mi accorgo che sono uno dei tuoi completi per correre. Appena finisci il caffè te ne passo in silenzio un pezzo alla volta. Mi guardi come per dire: “No, io oggi non corro”. Ti guardo come per dire: “Lo so, mica corriamo. Vestiti e basta”.

Recupero anche le scarpe, finite sotto qualcosa, e come se fosse la cosa più normale del mondo ti porto in strada. “No, non corro”, questa volta lo dici davvero. A bassa voce ma lo dici. “Certo che no” ti rispondo.
E partiamo.

La campagna intorno a noi mescola il suo solito verde al bianco della brina e al grigio di un po’ di nebbia residua. Muoio di freddo ma tu sembri a tuo agio: quella bella corazza serve anche a qualcosa di utile, a quanto pare. Ti esce un commento sugli alberi, dici che devono essere davvero stupidi per passare l’inverno a braccia spalancate per abbracciare solo il freddo. Credo sia la prima volta, da quando ti conosco, che ti sento pronunciare una qualsiasi coniugazione del verbo abbracciare, tu che secondo me non hai mai abbracciato neanche un peluche.

Ti sto davanti un paio di passi, giusto per darti qualcosa da inseguire, mentre controllo con la coda dell’occhio che non ti venga in mente di fermarti. Ogni tanto ci provi e sussurri un basta. Ti propongo allora di arrivare  almeno fino all’incrocio, alla panchina, alla casa gialla, e quando ci arriviamo ti sei già dimenticata che volevi arrenderti. Di panchina in panchina completiamo il giro con un piccolo allungo che, come sempre, vinci tu.

Prima di chiuderti il cancello alle spalle mi guardi un istante, sulle tue guance c’è un po’ di rosso che il freddo ha rubato al grigio che ti occupava prima. Ti sorrido, magari adesso mi ringrazi, magari mi nomini tua migliore amica del cuore, magari mi dici che chissà come faresti senza di me. Invece mi dici solo: “Ora mi tocca pure fare la lavatrice”.

Ti voglio bene anch’io.

mde

 

 

Io non mi chiamo Miriam (Axelsson Majgull)

Non mi chiamo Miriam

La mattina del suo ottantacinquesimo compleanno Miriam riceve gli auguri del figlio Thomas, della nuora Katarina e della nipote Camilla. Le portano in regalo un bel bracciale di artigianato zingaro su cui hanno inciso il suo nome: Miriam. E’ in quel momento che Miriam pronuncia a bassa voce quelle parole: “Io non mi chiamo Miriam”. I famigliari non ci fanno caso, pensano sia solo un po’ di confusione, solo la nipote ne è colpita. Più tardi, incalzata dalle domande di Camilla, Miriam inizia a raccontare quello che ha tenuto nascosto per più di sessant’anni. Perchè no, Miriam non si chiama Miriam. Non è nemmeno un’ebrea di buona famiglia, come tutti in quel piccolo paese svedese credono. Certo, era ad Auschwitz e poi a Ravensbruck, dove è sopravissuta per caso, per furbizia, per abilità, perchè voleva vivere.
Ma non si chiama Miriam.

La storia viene raccontata alternando tre piani temporali: l’oggi in cui Miriam chiacchiera con Camilla durante una passeggiata nel parco, l’ieri che vede Miriam adottata da Hanna che vuole farle recuperare il tempo perduto e renderla una brava svedese, e l’altro ieri terribile dei campi di concentramento.

Ma chi è davvero Miriam? La risposta che emerge dal libro è che, in fondo, chi sia davvero Miriam non ha nessuna importanza. Una persona non può essere definita da un nome, da una fede, da un’origine. Una persona è fatta dai cassetti, uno per ogni anno, in cui ciascuno di noi deposita le sue esperienze, le sue difficoltà, i suoi incontri, i suoi successi. Quelli andrebbero riempiti, più che i registri e i documenti.

E Miriam, o qualunque sia il suo nome, l’ha fatto.

Indice di regalabilità: 4/5 (libro facile da leggere, delicato, pur contenendo tutto l’orrore dei campi di concentramento).

(Di seguito alcune parti che ho sottolineato: a me servono per ricordare alcuni passaggi ma possono anche dare un’idea del tipo di storia e di scrittura a chi si sta lasciando incuriosire. Come sempre, le frasi prese fuori dal loro contesto possono avere un significato limitato o fuorviante. )

E lo fa. Si assicura che il lago brunastro diventi limpido e azzurro ghiaccio e che la vegetazione sul fondo sparisca, sostituita dalla nuda sabbia, che ogni zanzara nell’aria e ogni microbo nell’acqua smettano di esistere. Poi cade in ginocchio, ancora con le mani a coppa intorno al cervello e senza il minimo tremito. L’equilibrio è perfetto e le ginocchia consumate dall’artrosi non le fanno male per niente: si abbassa a terra con l’agilità di una giovane ballerina, si sporge in avanti e immerge il cervello nell’acqua cristallina lasciandola penetrare in ogni cavità, riempire ogni spazio, scorrere e lavare ogni cellula fino a liberarlo prima da tutti i vecchi odori disgustosi, poi da tutti i ricordi sgradevoli e infine da tutti i cattivi pensieri. Dopodiché lo strizza come una spugna e riporta la mano sulla testa. Preme e lascia che il cranio si apra. Rimette delicatamente il cervello lavato al suo posto e con uno scatto del collo fa richiudere il coperchio. Si guarda intorno e inspira a fondo. Ora il mondo ha un buon odore. Sa di ciliegio selvatico e lillà, rose e mughetto. Ed è bellissimo.

La ragazza smunta che aveva conosciuto all’arrivo aveva ragione: i nazisti odiavano gli ebrei più di quanto odiassero gli zingari. E però gli altri prigionieri disprezzavano gli zingari più degli ebrei. Il fatto era che nessuno, a parte le puttane e i ladri, sembrava disprezzare gli ebrei, mentre tutti si permettevano di disprezzare gli zingari. Zingari. Si sa come sono fatti, quelli…

Ad Auschwitz, si era resa conto che i rom erano gli unici a essere stati assegnati a un settore organizzato per famiglie. Tutti gli altri prigionieri scelti per ammazzarsi di lavoro al servizio del Reich erano stati messi in settori maschili e femminili separati. I rom no. Nel loro campo gli uomini si mescolavano alle donne e ai bambini. All’inizio Malika non capiva perché, ma poi ci era arrivata. Paura. Gli uomini delle SS, quei signori incredibilmente forti, eleganti e impettiti, erano in realtà intimoriti dagli zingari e dalla loro presunta ferocia.
Avevano capito che, se si fossero separati i mariti dalle mogli e i genitori dai figli,  avrebbero opposto resistenza e non volevano che succedesse. Di conseguenza avevano stipato nel settore degli zingari intere famiglie lasciando che fossero gli adulti stessi a decidere dove dormire. Non che fosse servito a molto. La resistenza avevano dovuto affrontarla lo stesso.

Era piacevolissimo sentire il peso delle lenzuola, bianche e lisce, e della coperta tirata. La tenevano al suo posto ed era bello essere una persona che aveva un posto.

A volte è un bene non essere troppo educati, perché si è più bravi a opporre resistenza.

Possiede una casa in cui il male non può entrare. Può farlo la delusione. E anche il dolore. Perfino i pensieri cattivi e le azioni malevole. Ma non il male in sé: non può entrare, non può aprire il cancello, non può imboccare il vialetto del giardino, non può salire i gradini, non può aprire la porta.

Siamo destinati a perdere tutto, anche le persone che hanno più importanza per noi.

Ai rom non era stato offerto nessun risarcimento. Non erano stati sterminati per ragioni razziali, avevano spiegato le autorità tedesche dopo la guerra, ma perché erano criminali. Fino all’ultimo. Anche le quattordicenni come Anuscha e i bambini come Didi. E gli onesti argentieri come il padre di Malika.


Sono passata per l’inferno, so cosa significa vivere all’inferno, e per questo non concedo niente a chi si crea il proprio inferno amatoriale per poi fingere di non poterne uscire. È ridicolo.

Sirene

Un pomeriggio di molti anni fa mi trovavo su un’auto che seguiva un carro funebre. Dovevamo attraversare un paese turistico, con un sacco di gente in giro perchè era una bella giornata di luglio.
Mentre avanzavamo a passo d’uomo, ho visto alcune persone che, indicandoci, si toccavano, facevano gesti, ridevano.
Su quel carro funebre c’era una piccola bara bianca, con dentro mio fratello, morto a sette mesi.
Di quel viaggio dall’ospedale alla Chiesa, durato circa un’ora, io ricordo solo le poche centinaia di metri in paese e le facce irrispettose di alcuni.
Non sono una persona che si indigna, che si lamenta o che protesta. Preferisco cercare di capire i motivi e impiego di solito poco tempo a trovare nella mia vita e nei miei comportamenti aspetti più vergognosi di quelli contro cui verrebbe da puntare il dito. Forse anch’io, prima, vedendo passare un carro funebre pensavo a qualcosa di ridicolo? Non lo so, non ricordo. Sicuramente non l’ho mai fatto dopo. Da quel giorno, se vedo un carro funebre, controllo chi c’è nella macchina che lo segue e offro un’espressione dispiaciuta.
Credo che la vita funzioni così per tutti: uno magari non ci pensa, crede siano stupidaggini, magari si sente anche brillante nel riuscire a scherzare su cose che per altri sono drammatiche. La vita però prima o poi ti prende per il collo, ti costringe a guardare da vicino lo schifo che sei e, se si è mediamente intelligenti, da quel momento si diventa persone migliori. Si cresce. Si diventa adulti capaci di costruire cose buone e utili per sé e per il mondo.
Non so quante possano essere le persone adulte che non hanno mai avuto qualcuno di caro su un carro funebre o su un’ambulanza che corre a sirene spiegate: magari qualcuno c’è, qualcuno che potrebbe anche ritenersi particolarmente fortunato, ma a cui mancano, dal mio personalissimo punto di vista, le basi per poter gestire una vita.
Figuriamoci un Paese.


(a mia futura memoria: questa riflessione nasce dopo aver letto che l’attuale vice premier e Ministro dell’Interno, sentendo le sirene di un’ambulanza durante un suo comizio,  ha commentato: “Un attimo che c’è l’ennesimo rosicone di sinistra che non riesce a digerire”)

1Q84 (Haruki Murakami)

Aomame è una giovane donna sola, indipendente, abile fisioterapista in un centro sportivo. Su commissione può uccidere un uomo con la punta di un rompighiaccio colpendolo in un punto preciso dietro la nuca, provocandone la morte immediata, senza apparente dolore e senza far uscire neanche una goccia di sangue.

Tengo è un uomo solo, piuttosto dimesso. Genio della matematica da ragazzino si è poi accontentato di un lavoro poco impegnativo presso una scuola preparatoria per l’università. Nel resto del tempo ama scrivere, collabora con una casa editrice e ad un certo punto gli viene chiesto di riscrivere la storia interessante ma scritta un po’ da schifo da una ragazzina diciassettenne silenziosa, molto strana, che sembra essere fuggita da una setta religiosa.

Un capitolo racconta la storia di Aomame. Un capitolo parla di Tengo. Uno e uno. Per tutto il primo libro si portano avanti queste due storie distinte senza capire che caspita c’entrino l’una con l’altra. I due personaggi non s’incontrano, non condividono nulla. Verso la fine del primo volume un elemento comune in realtà compare: Aomame si accorge che in cielo ci sono due lune. Anche nel romanzo che sta riscrivendo Tengo ci sono due lune. Che Aomame sia un personaggio del libro di Tengo? No, ve lo dico subito, non è così.

Nel secondo volume le due storie si avvicinano, come un meccanismo lento che, piano piano, porta ogni cosa al suo posto. Si inizia a capire qualcosa. “Ah vabbeh” pensi “questo, quello, certo, sì, tutto torna, anche le due lune. Torna addirittura anche il titolo, e anche le copertine.” Ti illudi che, cominciando a capire il meccanismo,  il tuo interesse diminuirà, che è una bella storia, sì, ma che forse non prenderai anche il terzo volume (nell’edizione italiana il primo e il secondo sono insieme in un unico libro). Bravo però, questo Murakami.  Già, talmente bravo che è proprio quando pensi di aver capito tutto che lui ti prende all’amo e ti tira su. Tanto per cominciare il secondo libro finisce con uno dei protagonisti in piedi sulla tangenziale di Tokyo e con una pistola in bocca. Tocca iniziare anche il terzo volume.

Il terzo libro è un vortice. Murakami è stato talmente bravo a costruire le storie nei primi due libri che il terzo proprio non riesci a lasciarlo giù. Si perdono le fermate della metro, per dire. Continua l’impostazione di un capitolo per Tengo e uno per Aomame, ora ne compare anche qualcuno per Ushikawa, una specie di investigatore privato molto molto intelligente e molto molto brutto. La storia scorre ora veloce, quello che doveva essere spiegato è stato spiegato prima, qui succede di tutto, fino all’epilogo finale sul quale sarei davvero imperdonabile se mi lasciassi sfuggire il minimo indizio togliendovi così il piacere del viaggio.

In 1Q84 ci sono un sacco di cose: vuoi il mistero? C’è. Vuoi la storia d’amore? C’è. Vuoi le riflessioni sulla solitudine, sulla morte, sulla religione? Ci sono.  Vuoi l’irreale, un pizzico di fantascienza? C’è. Vuoi il manga? C’è (dai, Fukada è un personaggio manga…). Vuoi sapere cosa si prepara per cena un giapponese? C’è. Ma ci sono anche cose che non ti aspetteresti: c’è la Sinfonietta di Janacek, ci sono i Little people che escono dalla bocca di una capra morta, c’è la crisalide d’aria, c’è il paese dei gatti, ci sono esattori del canone tv molto insistenti, c’è una serra di fiori meravigliosi curati da un’anziana ed elegante signora. Purtroppo ci sono anche un sacco di cose che non si capisce che fine facciano perchè l’autore, ad un certo punto, di tutti fili che hai in mano ne prende uno, te lo porta di nuovo in tangenziale e te lo molla lì. “E tutti gli altri?” ti chiedi voltandoti indietro dopo aver letto l’ultima pagina. Gli altri rimangono sospesi come capelli elettrici. Chissà, magari Murakami ci ripensa e ci regala un quarto volume.

(Grazie mille a Daniela che me l’ha consigliato)

Indice di regalabilità: 4/5 (adatto per chi già ama leggere e non è fissato con alcuni generi.  E’ un romanzo che può piacere sia agli uomini che alle donne. Non va bene per gli “ingegneri”, c’è un po’ di irrealtà e non tutto è spiegato).

(Di seguito alcune parti che ho sottolineato: a me servono per ricordare alcuni passaggi ma possono anche dare un’idea del tipo di storia e di scrittura a chi si sta lasciando incuriosire. Come sempre, le frasi prese fuori dal loro contesto possono avere un significato limitato o fuorviante. )

Che l’acutezza spirituale non potesse nascere da un ambiente protetto e confortevole, era un suo credo.

Grazie al fatto di leggere un’infinità di romanzi noiosi e mal scritti imparò sulla propria pelle che cosa fossero i romanzi noiosi e mal scritti.

“Lei non è un Angelo, e non è nemmeno Dio. Capisco benissimo che lei agisca spinta da un sentimento puro. Quindi capisco pure che non desideri ricevere in cambio del denaro. Eppure quest’istinto, proprio perché così puro è disinteressato, può essere pericoloso. Per un normale essere umano, vivere con un sentimento del genere non è un’impresa facile. Perciò è necessario che lei questo sentimento lo tenga saldamente legato a terra, come se mettesse un’ancora a un pallone aerostatico. Il denaro serve a questo. Anche se l’azione è giusta, e l’impeto che l’alimenta è puro, non è libera di fare qualsiasi cosa. “

“Tu lo sai qual è la più grossa differenza tra talento e intuito? È che per quanto uno possa essere dotato di talento, non è affatto sicuro che avrà da mangiare a sufficienza, mentre uno che possiede intuito non avrà mai problemi a pagarsi il pranzo”

Vivendo in un mondo come questo, dove tutto è più facile, la nostra sensibilità si è fatta più ottusa

Perché la maggior parte delle persone non crede nella verità, ma in ciò che desidera sia la verità. Per quanto questa gente possa tenere gli occhi bene aperti, in realtà non vede niente. Truffaldino è la cosa più facile che esista.

Negli ultimi due milioni cinquecentomila anni il cervello umano ha quadruplicato le sue dimensioni. Per quanto riguarda il peso, corrisponde solo al 2 per cento di quello totale del corpo, ma ciò nonostante consuma circa il 40 per cento delle sue energie complessive. Ciò che l’uomo ha ottenuto grazie a questo incredibile sviluppo dell’organo chiamato cervello, sono i concetti di tempo, spazio e possibilità

La moquette era fitta e morbida come il muschio antico di un’isola dell’estremo Nord. Il tempo che si era accumulato nel suo tessuto assorbiva il rumore dei passi che la calpestavano.

Per quanto potesse ricordare, non era mai piaciuto a nessuno. Quella situazione era normale per lui. Genitori e fratelli non lo avevano mai amato, gli insegnanti e i compagni di scuola nemmeno a parlarne, moglie e figlie non facevano eccezione. Se qualcuno gli avesse mostrato simpatia, si sarebbe sentito un po’ in imbarazzo. Risultare sgradito, invece, non gli creava problemi.

Dove ci sono speranze, ci sono ostacoli. Ne sono convinto anch’io. Però le speranze sono poche e quasi sempre astratte, mentre gli ostacoli sono moltissimi, e quasi sempre concreti.

Quando fu stanco di leggere, restò in silenzio a guardare il padre che continuava a dormire. Cercò di immaginare quali pensieri si agitassero nel suo cervello. Che tipo di coscienza si nascondeva in quel cranio testardo come una vecchia incudine? O forse all’interno non rimaneva piú nulla? Come una casa abbandonata, senza piú mobili
e utensili, portati via a uno a uno, e senza nemmeno una traccia delle persone che vi avevano vissuto. Ma se anche fosse stato cosí, sulle pareti e sul soffitto avrebbero dovuto esserci incisi, qua e là, ricordi o immagini. Cose coltivate tanto a lungo non possono venire risucchiate dal nulla cosí in fretta. Forse, mentre giaceva nel letto austero, in quell’istituto sul mare, nel buio e nel silenzio di una casa vuota, nascosta e remota, suo padre era circondato da immagini e ricordi che non apparivano agli altri.

«Nessuno è piú facile da ingannare di chi si sente dalla parte del giusto»,

Soprattutto, non erano dotati di quella sana capacità di dubitare, necessaria per sviluppare una vera saggezza.